Il virus con cui stiamo facendo i conti ha scavato dentro le anime e i cuori, i sentimenti, le percezioni, il modo di pensare. È caduto il mito dell’uomo invincibile, al riparo da tutto perché sotto l’ombrello della tecnologia e della scienza, immerso nel mercato che tutto può offrire secondo il dispositivo del consumo dove tutto è a portata di mano. C’è uno spazio che rimane ancora misterioso: è quello della coscienza personale e collettiva, dove si depositano le domande trovando un terreno sempre nuovo e sempre diverso. Le domande di senso hanno bussato alla porta di tutti: le risposte, sempre, sono affidate alla libertà di ciascuno. Questo tempo che appare come una lunga traversata nel deserto, ci rimanda alle tante cose dette nell’ultimo decennio a proposito di cambiamenti irreversibili: questi passaggi, pur invocati da documenti ed esortazioni, sembravano destinati a essere archiviati nel faldone delle buone intenzioni, buone per chi continuava a vivere l’attenzione al mondo giovanile come una passione personale, come chi colleziona farfalle. Molti giovani hanno vissuto da vicino una morte disumana di nonni e genitori: quella che ha negato l’accompagnamento, impedendo di poter dire anche solo un’ultima parola ai propri cari. È stata la prima esperienza diffusa per le nuove generazioni della fragilità della vita: la noia generata dal benessere e dai consumi ha visto accendersi un forte temporale. Sono situazioni che avrebbero richiesto di poter dire una parola, di porre delle domande e di offrire qualche fragile risposta. Si è aperto un grande spazio che è quello del mistero della vita, ma l’impressione è che sia sceso solo un imbarazzato silenzio frutto di stili di vita ormai pluridecennali: l’assenza continuativa e sapienziale di genitori e adulti ha fornito ai giovani molte cose, ma poche indicazioni di vita e di senso. Cosa significhi per loro un criterio di vita buona è da cercare e da ascoltare, ma certamente non è legato a un percorso disciplinato e paziente. Tutto questo ripropone in modo nuovo la grande domanda sull’annuncio del Vangelo alle nuove generazioni. Seppur con fatica stavamo facendo i conti con un’epoca diversa; ora, pare, bisogna avere il coraggio dei giorni più drammatici. Nella memoria di tutti c’è un passato ben presente: i grandi numeri di eventi come le Gmg degli anni Duemila, una certa facilità di convocazione agli appuntamenti diocesani, un linguaggio comune che identificava la proposta di attività e incontri anche parrocchiali. Ma ora sarà necessario avere un paio di attenzioni. La prima è quella di liberarci dall’ansia di raggiungere grandi numeri: non si tratta di immaginare un cattolicesimo giovanile di élite, quanto piuttosto di riprendere le fila dell’annuncio prevedendo che solo esperienze qualificate nella proposta, ma anche nella presenza di chi le offre, potranno mutare la forza di attrazione della fede. Questa attenzione genera immediatamente la seconda: la cura educativa dovrà esprimersi con più attenzione. Ci sarà bisogno di pazienza nell’ascolto per intercettare le domande, di pazienza nel saperle accompagnare e nel saper spiegare che cosa si sta facendo. Non esistono più parole magiche per la convocazione dei giovani: la capacita di stare dentro la storia lottando per la verità del Vangelo e offrendo esperienze di servizio e accompagnamento, si sta rivelando una proposta efficace. Il tessuto sociale chiede di non essere abbandonato alle logiche mercantili che trasformano tutto in un’occasione di profitto.
Guardando a questo scenario possiamo tornare a focalizzare anche il senso dei cambiamenti che le strutture ecclesiali devono affrontare: nella misura in cui sapremo comprenderne la funzione e la missione in uno scenario mutato, sapremo trovare cammini nuovi di servizio e di testimonianza cristiana.
don Michele Falabretti