Chi è
Nasce a Como nel 1966. Dopo avere conseguito la laurea in Filosofia all'Università di Milano e il dottorato di ricerca in Pedagogia nelle Università di Milano e Bologna, insegna Italiano, Storia e Cultura Civica nei Centri di formazione professionale Enaip di Cantù e Como. Dal 1999 insegna presso l'Università di Milano Bicocca, facoltà di Scienze della Formazione.
Ha pubblicato oltre 40 libri e circa 200 articoli su riviste specializzate. Attualmente la sua cattedra universitaria è Pedagogia Interculturale. Ha svolto attività di ricerca interculturale in Senegal, Kosovo, Giappone, Romania, Germania, Israele. Ha studiato la shoà, soprattutto nelle sue declinazioni pedagogiche. Studia la mistica giudaica e cristiana e la storia della religione giudaico-cristiana dalle origini con qualche incursione nella mistica sufi. Organizza corsi di formazione per insegnanti, educatori, operatori sociali e sanitari, delegati sindacali.
Traccia di intervento
PREADOLESCENTI, ADOLESCENTI E GIOVANI. Per un vocabolario di pastorale giovanile
Risposi: Ahimé, Signore Dio, ecco io non so parlare,
perché sono giovane
Ger 1,6
Un giovane calciatore che debutta in serie A ha 15 anni. Un giovane docente universitario ne ha 40. Un giovane premio Nobel ne può avere 60. Che senso ha utilizzare la stessa parola giovane, per definire persone che occupano tratti del percorso vitale così distanti tra loro? Che significato può avere una parola così fluida da essere quasi priva di referente reale?
Il giovane Geremia afferma di non saper parlare: ma non è lin-fante, per definizione, a non saper parlare? E in che cosa allora il ragazzo Geremia è diverso da un bambino? Che senso ha definire la gioventù sempre in senso sottrattivo (come non-ancora capace di
)? E che dire dei termini ragazzo, pre-adolescente, adolescente, teens, tweens (il vocabolo usato negli Stati Uniti per definire coloro che non sono più bambini ma non sono ancora teens e dunque sono between tra due età), giovane adulto? Forse abbiamo troppi termini per definire una realtà che ci sfugge, che non sappiamo affrontare; forse abbiamo troppo detto i giovani e ci siamo dimenticati di agirli?
Abbiamo un segno chiaro che la natura ci fornisce per marcare un passaggio netto e irreversibile nella strada della vita: la pubertà è lunico snodo che lo sviluppo umano pone per evidenziare una differenza essenziale tra il prima e il dopo. Ma a valle di questo snodo alcune società umane hanno posto altri appuntamenti, altri passaggi, altre età della vita create culturalmente. Il problema è che non sempre questi passaggi sono in sintonia tra loro, anzi non lo sono quasi mai. Così i nostri ragazzi sono scolasticamente maturi a 19 anni ma a già 18 lo sono penalmente; possono guidare unauto solamente dopo i 18 anni ma possono accendere un PC e connettersi in rete a 4; non possono percepire uno stipendio a 14 anni ma se giocano a calcio il loro cartellino è una merce esattamente come quella di un adulto; a dieci anni non possono aprire autonomamente un conto in banca ma sono bombardati da pubblicità che li considerano i decisori delle scelte economiche delle loro famiglie. In mezzo a questa confusione totale come definire le età della vita? O meglio: ha ancora senso definire età della vita?
E soprattutto: è possibile parlare di tutto questo senza fornire la risposta alla domanda fondamentale: che cosa significa essere adulti? Un essere umano di 45 anni che picchia un altro uomo perché ha la sciarpa di una squadra di calcio, un signore ben oltre la soglia della pensione che usa una bestemmia per concludere una barzelletta, un trentenne che passa la notte davanti a un negozio per poter acquistare un i-phone il primo giorno della sua uscita sul mercato: questi adulti non mettono forse in campo comportamenti che riteniamo tipici degli adolescenti?
E la pastorale in tutto ciò? Nella Palestina del I secolo i pastori conoscevano per nome le loro pecore: A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori (Gv, 10,3). Oggi rischiamo di non distinguere nemmeno gli agnelli dalle pecore adulte. E soprattutto, rischiamo di non avere pastori adulti, ma solo garzoncelli scherzosi, che anche essendo anagraficamente adulti sono troppo giovani per parlare ma non se ne rendono nemmeno conto.
Che fare, dunque?