Storie di numeri sulla maglia e sulla pelle
Vincitore del Premio "Marco Cassani" 2018 per la "Miglior Comunicazione a proposito di Storia dello Sport".
Ad Auschwitz, a Kiev, a Therezinstadt, si giocava a pallone.
Le guardie organizzavano partite, addirittura tornei. Si divertivano a sfidare i prigionieri ridotti a scheletri disorientati e sfiniti. Un gol o una parata potevano significare premio o punizione, promozione o tortura, a seconda della divisa che si portava.
Si giocava dove l’erba aveva smesso di crescere da tempo, calpestata da passi strascicati, e dove l’aria e la terra erano intrise di storie scadute, abbandonate all’oblio.
Nei campi di lavoro nazisti c’era gente che giocava davvero bene a calcio: fino a pochi mesi prima avevano infiammato gli spalti negli stadi più importanti d’Europa.
E anche quelli che erano stati famosi calciatori, ora, non avevano più il loro nome, solo un numero sul braccio, molto più lungo di quello sulla loro maglia.
Ma un inesorabile triplice fischio improvvisamente aveva decretato la fine della partita che li aveva visti protagonisti. E per molti di loro nessuna possibilità di tempi di recupero.
Come un album di figurine in bianconero, raccontiamo Arpàd Weisz, Matthias Sindelar, la squadra dei panettieri di Kiev: campioni nelle cronache sportive degli anni Trenta, fatti sparire dai terribili eventi del secolo scorso.
Ed è così, che anche il Pallone, protagonista di tante cronache e chiacchiere spensierate, questa volta ci aiuta a non dimenticare.