Da anni ormai si dice che la titolarità dell’azione educativa appartiene all'intera comunità cristiana. È un aspetto importantissimo: l'unico che può portare non solo a scelte coraggiose, ma anche alla possibilità di sostenerle nel tempo. Non ci deve infatti far paura l'idea che sia necessario un investimento di tipo economico: la comunità già compie investimenti di questo tipo; il prete (parroco o vicario parrocchiale) viene retribuito, ma in alcune parrocchie anche il sacrista che ormai ha un contratto di categoria riconosciuto dallo Stato.
La questione riguarda piuttosto il fatto che l'educazione non può essere delegata a nessuno, nemmeno se professionista, perché va mantenuta la sua dimensione di azione condivisa dalla comunità. Questo principio fondamentale pone l'educatore in una costante situazione di interdipendenza: il dialogo continuo, il mandato da chiarire sempre, la gestione della responsabilità sempre da rimandare ai bisogni dei ragazzi e alle scelte della comunità dovrebbero costituire le qualità fondamentali delle figure educative, anzitutto di quelle che si vogliono definire "professionali". Solo a queste condizioni è possibile aprire un discorso serio sull'educatore professionale in oratorio e solo se c'è questa disponibilità di fondo è possibile insistere presso le comunità cristiane perché prendano in considerazione l'idea di un investimento di questo tipo.
Le conseguenze non sono da poco: per esempio, potremmo spingerci a dire che la dimensione della fede personale non è un criterio esaustivo. Ovvio che un educatore in oratorio non può pensare e agire contro i principi della vita cristiana. Ma le sue convinzioni personali potrebbero persino non essere determinanti nella decisione di un suo ingaggio, a patto ovviamente che egli sia disposto a non ostacolare l'orientamento alla vita cristiana che l'oratorio cerca di dare ai suoi ragazzi.
L’oratorio, oggi, è diventato un sistema educativo piuttosto complesso: non si vuole assolutamente negare l’ispirazione cristiana del suo agire (anzitutto perché – come abbiamo già ricordato – l’oratorio appartiene alla comunità cristiana che lo promuove e lo sostiene). Ma proprio in nome dell’agire cristiano, l’oratorio compie azioni che sono strettamente confessionali (la catechesi, i momenti di preghiera, i ritiri spirituali – dove saranno necessari testimoni della fede) e ne promuove altre che prevedono la presenza di ragazzi che non appartengono alla comunità cristiana e non ne condividono la fede. Queste iniziative sono definite da uno “stile” cristiano proprio per l’attenzione, l’accoglienza e la cura di tutti e non immediatamente dalla “consegna” o da un approfondimento di contenuti di fede ai quali accedono principalmente ragazzi che si riconoscono in un cammino di fede.
Il confine non è sempre netto e questo chiede all’oratorio uno stile capace di costruire un sistema educativo integrato: anzitutto al suo interno (declinando e definendo bene le proprie attività) e poi nei suoi rapporti con l’esterno, con le altre agenzie educative del territorio. È evidente a tutti che questo chiede figure con competenze educative specifiche in grado soprattutto di progettare coinvolgendo tutte le risorse presenti nella comunità e coordinando le persone perché il progetto non si perda per strada.
Tutto questo chiede all'educatore professionale una grande capacità di mettersi in rete e di essere persona capace di tessere relazioni. Per questo siamo arrivati a dire che la dimensione testimoniale della fede non è prioritaria nei compiti di un coordinatore delle attività educative. L’abbiamo fatto perché non si cerchi un educatore professionale principalmente perché il clero giovane (un tempo depositario unico della direzione dell’oratorio) è oggi in sensibile calo. E soprattutto perché non si chieda all’educatore professionale di sostituirsi alla figura del prete di oratorio (per sua natura è insostituibile), ma lo si ingaggi con un mandato specifico.
(Estratto dal volume “Ma che lavoro fai?, Editrice La Scuola – L’educatore dentro la comunità” di Michele Falabretti)