È una quotidianità silenziosa, quella di questi giorni, che sta mettendo a dura prova le nostre certezze, cambiando le nostre abitudini. Ma è anche un tempo irrazionale, dominato dalla paura di essere contagiati e di contagiare. È il tempo dei treni presi d’assalto per la smania di mettersi in salvo, per l’angoscia di rimanere soli o, peggio, dei gesti poco responsabili, posti in essere nella totale incuranza della sofferenza e della debolezza altrui. Nello scorso weekend, ad Agrigento, capoluogo della provincia in cui vivo e che ancora sembra non aver percepito la minaccia del Covid-19 e l’impatto che l’infezione potrebbe avere sul sistema sanitario siciliano, i giovani hanno invaso le strade della movida, come nelle sere estive. È come se d’un tratto ci fossimo resi conto di non saper sacrificare nulla che ci riguardi in prima persona, rifiutando di poterci scoprire vulnerabili e convincendoci, forse, che niente di così preoccupante ci possa capitare. È come se l’obiettivo dovesse essere restare concentrati su se stessi, senza prendere consapevolezza di quanto sia indispensabile andare incontro all’altro, per proteggerlo e averne cura. In questi frangenti, che mischiano paura e incoscienza, il messaggio che Francesco ci ha consegnato per la XXXV Giornata mondiale della gioventù risuona sempre di più come un monito che ci incalza.
Con il testo biblico scelto, «Giovane, dico a te, alzati» (Lc 7,14), il Santo Padre ci invita anzitutto ad alzare lo sguardo per incontrare la «realtà dell’altro», la stessa che in questi giorni fatichiamo a scorgere in tutta la sua fragilità. Come quello che Gesù rivolge alla donna di Nain, il nostro deve essere uno sguardo «attento e non distratto», che sa accogliere il dolore dell’altro per ricordagli, specie nei momenti più bui, che non è solo.
In diverse occasioni – sottolinea Francesco – noi giovani abbiamo dimostrato di saper partecipare a realtà di sofferenza, dolore, morte; di saperci fare prossimi, donandoci coraggiosamente e generosamente, per far fronte a situazioni emergenziali. L’idea di prossimità ci appartiene perché ci appartengono i sentimenti dell’empatia e della compassione, tramite i quali le fragilità dell’altro sanno toccarci, scuoterci, avvicinarci ed accumunarci nella condizione di giovani che spesso cadono e faticano a rialzarsi. In questi casi è la consapevolezza di amare e di sapersi amati, quella cui con forza ci aggrappiamo per risollevarci, che ci salva. Dovremmo, allora, continuare a lasciarci interpellare dallo sguardo di chi è nel dolore per «alzarlo e restituirlo alla vita» e dovremmo farlo anche adesso che la nostra capacità di farsi prossimo ci induce a non lasciarci sfuggire la possibilità di essere, anche da casa nostra, generatori di speranza.
Martina Sardo, @Avvenire 11/03/2020